domenica 29 settembre 2013

La fondazione della città di Porto Torres secondo Francisco de Vico

Nel 1639 Francisco de Vico pubblica in Barcellona la Historia general de la isla, y reyno de Sardeña, opera immensa in sette volumi in cui si parla della Sardegna dall'antichità al 1600.
Curiosando tra le pagine ho trovato una breve cronologia delle città antiche e tra queste, la più antica, è Porto Torres, ma vediamo cosa dice l'autore (che scriveva in spagnolo e io tradurrò al volo).

"La prima di queste città (secondo l'ordine temporale) fu la città di Torres, che Tolomeo e la maggior parte dei geografi in lingua latina chiamarono Turris Libisonis. Prima colonia dei romani, famosa per grandezza, ricchezza, località e fiume, che la divideva a metà, fondata da Ercole Libico (Melqart) nell'anno 2216 dalla creazione del mondo (ovvero 1788 a.C. secondo il nostro calendario!), ove nei giorni nostri si trova il grandioso tempio di San Gavino..."

Se queste informazioni sono corrette, Porto Torres dunque è una città che è sorta circa mille anni prima di Roma!
Ci pensate?

Eppure oggigiorno è quasi scomparsa, seppellita dai problemi atavici della Sardegna, principalmente la mancanza di lavoro.

Svegliati Porto Torres, fai vedere ciò che vali, ridestati dal torpore e dimostra ciò che sei, una città con quasi quattromila anni di storia!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 21 settembre 2013

L'America? Non l'ha scoperta Colombo, parola di Plutarco!

Plutarco, filosofo greco antico, visse ed operò tra il 46 e il 125 dopo Cristo.
Su di lui troverete tutte le notizie che volete e anche tutti i suoi libri, le vite parallele in particolare, le più note, ma anche i moralia, meno noti e che parlano di argomenti differenti. Tra queste opere mi interessa una in particolare, chiamata "il volto della luna" in quanto uno degli argomenti trattati in questo dialogo è per l'appunto la presenza di una immagine delineata dai chiaroscuri visibili sulla faccia della luna, un volto di donna i cui colori variano con le stagioni e le ore della notte.
Ma nella parte finale dell'operetta, peraltro incompleta nella versione che ho letto io, si parla di qualcosa di particolare, di un viaggio.
Plutarco cita Aristarco di Samo, astronomo greco antico che visse ed operò tra il 320 e il 230 avanti Cristo e riporta una parte di una sua opera e dice: "Purchè, mio caro, tu non ci intenti un processo per empietà come quello che Cleante pretendeva dai greci contro Aristarco di Samo, che egli accusò di perturbare il focolare dell'universo nel tentativo di salvare i fenomeni con l'ipotesi che il cielo resti immobile mentre la terra percorre un'orbita obliqua rotando al contempo contro il loro asse..."
Aristarco di Samo, 17 secoli prima di Copernico, aveva le idee chiare sui movimenti della Terra e sul sistema solare, non pensate? Le idee sembra non fossero sue ma di un suo predecessore, Eraclide Pontico, filosofo e astronomo greco antico che visse tra il 385 e il 322 avanti Cristo.
Ma questo è veramente niente in confronto a quello che è possibile leggere poche pagine dopo a proposito di isole e terre lontane: "lungi nel mare giace un'isola, Ogigia, a cinque giorni di navigazione dalla Britannia in direzione Occidente. Più in là si trovano altre isole, equidistanti tra loro e da questa, di fatto in linea col tramonto estivo. In una di queste secondo il raccondo degli indigeni si trova Crono imprigionato da Zeus e accanto a lui risiede l'antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. Il grande continente che circonda l'Oceano dista da Ogigia qualcosa come 5000 stadi, un po meno dalle altre isole, vi si giunge navigando a remi con una traversata resa lenta dal fango dei fiumi. Questi sgorgano dalla ma ssa continentale e con le loro alluvioni riempiono a tal punto il mare di terriccio da aver fatto credere che fosse ghiacciato. La costa del continente è abitata da greci lungo le rive di un golfo che è grande almeno quanto la meotide e sbocca in mare aperto pressappoco alla stessa latitudine dello sbocco del Caspio..."
Il racconto continua nella descrizione di viaggi e terre. E abbastanza chiaro che Plutarco sta parlando di un viaggio compiuto in antichità verso il grande continente americano passando per le isole a nord della Britannia.
Plutarco racconte che una volta un saggio proveniente da questa terra lontanavenne sulla nostra terra che chiama Grande Isola:
"Soggiornò assai a lungo a Caartagine, dato che nel nostro paese Crono gode di un culto speciale, ed anche ritrovò alcune pergamene sacre trafugate segretamente dalla prima città al momento della sua caduta e rimaste a lungo sepolte nel terreno all'insaputa di tutti..."

Che fantastico racconto... eppure nessuno ne parla, perché?
In conclusione, Ulisse e la sua Odissea secondo questo testo hanno viaggiato fuori dal mediterraneo e l'America non è stata scoperta da Colombo. L'America è stata solo riscoperta da Colombo, e questa non è l'unica traccia di un viaggio in America in tempi antichi!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

Sulla storia dei fenici secondo Sanchuniathon, tradotto da Filone di Biblos

Carissimi amici lettori,
la mia lontananza da queste pagine vi avrà forse fatto pensare di esservi finalmente liberati di me, ma aihmè, non è così!
In questi tempi mi sono dedicato come non mai alla ricerca e nel corso dei miei approfondimenti storici mi sono imbattuto in un autore antico fenicio chiamato Moco o Mosco o simili nomi. Approfondendo le mie conoscenze su questo autore, che sembra sia esistito ed abbia operato prima della guerra di Troia, mi sono imbattuto sempre per caso in un articolo pubblicato sulla Revue des deux mondes su un'opera di Filone di Biblo, la supposta traduzione in greco della storia della fenicia. In questo articolo del 1836 si parla delle colonne dell'ercole fenicio, Mélicerte in Francese, ovvero Melqart.
Nell'articolo, che ho appena terminato di tradurre dal francese (che per il poco tempo a disposizione non è certo ben fatta), si parla anche delle colonne d'Ercole e di un viaggio compiuto da Mélicerte nel Mediterraneo, viaggio che lo ha portato a toccare varie isole e ad arrivare fino a Tartesso. Nell'articolo si parla inoltre delle colonie e fondazioni dei fenici e con sorpresa ho notato che la Sardegna, citata con un altro nome (Gadyla) aveva una sola piccola città fondata dai fenici, posta tra la Sardegna e la Corsica. Tale città non è nominata ma credo si tratti di Porto Torres in quanto già in altri testi ho visto che la fondazione dei Porto Torres è fatta risalire al 1700 a.C. circa e che vi si trovava, nei pressi, un altare dedicato ad Ercole.
Ammesso e non concesso che ciò che si racconta sia vero e non un falso come da alcuni sospettato, cosa può significare la quasi totale mancanza di informazioni sulle città della Sardegna di supposta origine fenicia?
Vi sono dubbi sulla autenticità di questo testo e esistono dubbi anche sulla reale esistenza di Filone di Biblo ma, se il documento di cui parla la Revue des deux mondes è reale e se Filone ha effettivamente tradotto la storia della fenicia secondo Sanchuniathon, allora sembra che i fenici non siano arrivati in Sardegna in tempi molto antichi, forse sono stati solo i Cartaginesi a cercare di stabilirvi dei porti (ad eccezione di Porto Torres)!
Credo che la cosa meriti maggior attenzione per cui vi invito tutti a leggere con attenzione il testo che segue e lasciare i vostri commenti.
Perdonate la traduzione veloce, mi rendo conto che in certi punti lascia un po a desiderare ma ho preferito dare a tutti la possibilità di approfondire, io mi dedicherò a fare lo stesso e a migliorare la traduzione con calma questa estate.
Ho trovato anche un altro riferimento alla questione in una rivista italiana del 1836 (Ricoglitore italiano e straniero), ma ancora non l'ho letto completamente per cui per ora non ne parlo.
Vi lascio dunque a questa interessantissima lettura sull'origine dei fenici, buona lettura.

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


Sulla scoperta d'un manoscritto contenente la traduzione di Sanchuniathon, di Filone di Biblos.

(Revue des deux mondes. Sept. 1836, tomo 7, pag. 543-564)

“Se la storia antica, disse uno storico saggio1ha subito una perdita sensibile ed in nessun modo recuperabile, è soprattutto a causa della scomparse degli scritti che trattavano della costituzione delle imprese e delle opere dei Fenici. Più questo popolo ha influito sullo sviluppo dell'umanità per le sue invenzioni, per aver stabilito le sue numerose colonie e per il suo commercio immenso, tanto più si sente la mancanza che la perdita di questi scritti ha lasciato nei fasti del genere umano.

Tuttavia, malgrado questa assenza totale di documenti originali, il venerabile professore di Gottingua, non avendo come soccorso che pochi dati sparsi tra la Bibbia e gli autori greci e latini, ma guidato da quella coscienza intima che egli ha della vita dei popoli dell'antichità, è riuscito a farci conoscere la situazione politica, costituzione, le colonie fenicie e le rotte che seguiva nel suo immenso commercio, tanto per terra che per mare. Ma che talvolta (de fois) si rammaricava, nel suo libro, di non avere sotto gli occhi le storie di Dius e di Menandro d'Epheso2di cui Giuseppe ci ha conservato alcuni frammenti, e soprattutto la storia della Fenicia scritta da Sanchuniathon, di cui Eusebio, nella sua Preparazione evangelica, ha citato dei lunghi frammenti che, disgraziatamente, non contengono che la parte cosmogonica dell'opera. Così egli ha dovuto apprendere con vivissima gioia, ma senza dubbio misto con qualche incertezza, la notizia annunciata da circa sei mesi dai giornali, che la traduzione greca di Sanchuniathon, a cura di Filone di Biblo, era stata ritrovata in un convento portoghese. La sua gioua e la sua incertezza, sono condivise da tutti gli amici dell'antichità, ma lo scoraggiamento ha subito seguito la speranza quando si è visto che questo annuncio non fu seguito da alcun altro documento, sia sullo stato del manoscritto, sia sul contenuto, sia sul suo futuro editore. Questo terribile silenzio è stato rotto, infine, dalla pubblicazione di un volantino annunciato quale precursore del testo greco di Filone, e dal titolo: “Analisi della storia primitiva dei Fenici secondo Sanchuniathon, fatta sul manoscritto recentemente ritrovato della traduzione completa di Filone”; con delle osservazioni di Wagenfeld. Questo volantino apparso presso Hahn, ad hannover, contiene inoltre un facsimile del manoscritto e un proemio del dottor G.F. Grotefend, direttore del Liceo di Hannover, conosciuto da lungo tempo nel mondo dei saggi per importanti lavori coi quali si è librato sulle iscrizioni di Persepoli e su quelle della Licia.
Cosa dobbiamo pensare di questa pubblicazione? Dobbiamo guardarla come una mistificazione o come un documento serio? Il nome di Grotefend, se non se ne è abusato, come si è abusato questo inverno del nome di Herschell, non consente ancora di vedere in questa brochure l'opera di un falsario? La germania non è la classica terra di questo tipo di soperchierie di cui l'Italia ha dato così tanti funesti esempi. La buana fede, meglio, il candore germanico, non ammette ancora una tale supposizione.
Il fac simile del manoscritto unito alla brochure, è realizzato con una scrittura molto antica, che mostra la mano non di un greco, ma di un uomo dell'occidente; un falsario non avrebbe scelto preferibilmente un carattere di questo genere che avrebbe potuto tradirlo. Dirò di più, un mistificatore il cui scopo sarebbe stato principalmente quello di ottenere una vendita a prezzo elevato, avrebbe cercato di comporre un libro più divertente, avrebbe messo più episodi romanzeschi; difficilmente si inventa la storia completa di un popolo come quello dei fenici, che, ad ogni passo è esposto a tradirci. Ora dobbiamo convenire seguendo l'analisi di Sanchuniathon, la semplicità e la verità della narrazione, le sue coincidenze con la Bibbia, la molteplicità di dettagli, la semplicità con cui i nomi propri si possono spiegare con l'ebraico, tutto sembra annunciare una composizione originale. Per finire, ma questo argomento lo introduco non senza qualche forzatura, l'autore, che fissa l'esistenza di Sanchunuathon al VI sec. A.C., non ha tralasciato di inserire nel suo libro la storia della fondazione di Cartagine e soprattutto il racconto dell'assedio di Tiro da parte di Nabuchodonosor, tanto che si ferma al nono secolo, limitandosi ad indicare gli storici che hanno raccontato gli avvenimenti posteriori. Non si può usare come argomento negativo l'epoca tardiva della scoperta, altrimenti si dovrebbe negare l'esistenza della Repubblica di Cicerone, delle Istituzioni di Gaio, della Cronaca di Eusebio, delle diverse opere di Lido e così via. Non si tratta, d'altronde, della prima menzione che si fa d'un manoscritto di Sanchuniaton. Beck in una nota sulla Biblioteca greca di Fabricius, afferma che esiste un frammento inedito di questo autore presso la biblioteca Medicea a Firenze; egli aggiunge che un terzo frammento è stato raccolto in oriente da Peiresc che lo ha portato a Roma an padre Kircher ma che quest'utimo si rifiutò di pubblicarlo. Infine Leon Allatius ha, se non mi inganno, detto di aver visto con i suoi propri occhi un manoscritto di Filone di Biblo in un monastero nei pressi di Roma.

Il solo argomento negativo che ha qualche senso è l'assenza di qualunque informazione precisa sul manoscritto che si pretende sia stato scoperto nella penisola spagnola. Ma se è vero, come si dice, che questo libro proviene da un convento portoghese che fu saccheggiato ai tempi della spedizione di don Pedro contro suo fratello, e che è stato portato in germania da un ufficiale di Hannover, si può capire perchè si esiti a citare i nomi propri. Opinioni molto differenti sono già state emesse su questa scoperta. Noi sappiamo, dall'Athenaeum del 25 luglio scorso, che il saggio Gesenius, il più celebre di tutti gli studiosi ebrei della germania, Gesenius, che ci promette la spiegazione prossima delle iscrizioni fenicie rispettate dal tempo, si è pronunciato in favore dell'autenticità del manoscritto del quale il signor Wagenfend ha appena pubblicato l'analisi. E' anche vero che secondo lo stesso giornale il signor Wilken, lo storico delle crociate, si è pronunciato in senso negativo, ma qualunque sia il rispetto che merita l'opinione del signor Wilken, in questa materia quella del signor Gesenius dovrebbe sorpassarla.

Noi dobbiamo aggiungere che, se dobbiamo credere all'articolo dell'Athenaeum, il signor Grotefend ha pubblicato la seguente nota sul libro del signor Wagenfeld: “Per prevenire l'intenzione laddove si potrebbe fare (...) di tradurre quest'opera in altre lingue, io credo che sia mio dovere il dichiarare pubblicamente e senza perder tempo, che dopo le informazioni raccolte fino ad ora, io sono moralmente convinto che l'estratto di Sanchuniathon non è altro che un ingegnoso falso. E io faccio questa dichiarazione senza attendere alcuna ricerca che richiederebbe troppo tempo; perché, anche supponendo che alla fine il risultato dimostrasse che questa dichiarazione non sia fondata, la stessa sarà sufficiente sin da ora per impegnare il signor Wagenfeld a difendere il suo onore dando prova della sua onestà".

Ma, a primo acchitto, questa nota difficilmente può essere opera del signor Grotefend.

Come! O egli è stato crudelmente falsificato, oppure si è slealmente abusato del suo nome ed egli si limita a qualificare l'opera come "ingegnosa finzione"; e questa dichiarazione per parte sua non ha altro scopo che di impedire la traduzione della brochure in altre lingue straniere! Ma, nell'uno o nell'altro caso, chi non avrebbe cominciato per schiacciare il falsario sotto il peso della giusta indignazione, senza preoccuparsi se delle traduzioni in altre lingue avrebbero potuto contribuire a propagare l'errore? Se la nota sull' Athenaeum è del signor Grotefend, potrebbe darsi che sia stata snaturata dal traduttore inglese, sia involontariamente, sia a causa di un interesse personale, queste erano le riflessioni che suggerivano all'autore di questo articolo una tale complicazione di incidenti e di dubbi, quando ha ricevuto la lettera seguente del signor Grotefend, al quale si era indirizzato per eliminare le proprie incertezze. (Hannover, 18.8.1836)
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Signore,

poco tempo dopo aver raccomandato ai saggi l'analisi della traduzione di Sanchuniathon a cura di Filone di Biblo, che si pretende aver scoperto recentemente, mi sono convinto che l'autore di questa analisi non è che un mistificatoree mi sono ritrovato nella necessità di esprimere pubblicamente i miei dubbi sulla autenticità della sua scoperta. E' vero che esistono tanti motivi a sostegno dell'autenticità dell'opera che gli uomini più attenti possono difficilmente trovare materia per dubitare. Ma come tutto ciò che è apparso su questo soggetto al pubblico dal signor Wagenfeld, un insigne mistificatore, e siccome nessuno fino ad ora ha potuto esaminare il manoscritto, si è autorizzati a dubitare della sua autenticità, se non del tutto, almeno su molti dettagli. Si è d'altronde ancor più lontani dall'attendersi una simile soperchieria da parte di un giovane uomo candidato in teologia e filosofia a Brema, che l'amore per la verità è il tratto caratteristico dei tedeschi. Ma purtroppo il signor Wagenfeld ha così poco amore per la verità che mi sono visto obbligato a rompere tutte le relazioni con lui. I dubbi che ho espresso sui giornali non avevano altro scopo che il metterlo con le spalle al muro, al fine di arrivare almeno a qualche certezza. Questo ha avuto come risultato di costringerlo a trattare con la libreria Schunemann, a Brema, per la stampa dell'originale greco. Ma disgraziatamente si dubita ugualmente dell'autenticità di questo originale. Ed anche ammettendo che questo testo greco abbia avuto per base un antico manoscritto non è possibile prendere per argento sonante ciò che viene da un uomo che, come il signor Wagenfeld, è noto che per il piacere di imbrogliare il pubblico, non teme di far ricorso all'impostura.

Ricevete, signore, eccetera... G.F.Grotefend.
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Si può notare, da questa lettera, che tutti i dubbi sono lontani dall'essere sciolti, ma questo prova che il signor Grotefend è sicuramente l'autore della prefazione che precede l'analisi in questione e che non conoscendo i motivi poco onorevoli che hanno spinto il signor Wagenfeld ad abusare della sua buona fede e di quella del pubblico, egli ha creduto inizialmente alla autenticità dell'opera. Ma che non si rimproveri frettolosamente il rispettabile Direttore del Liceo di Hannover di aver dato credito a questo lavoro, perchè realizzato con tanta abilità e sapere che potrebbe ingannare l'occhio più esercitato. Come credere che un giovane uomo, che ha appena lasciato i banchi dell'Università abbia già acquisito tanta conoscenza al punto di far rivivere un antico popolo e una storia coerente e probabile?

Come credere, soprattuto, che per soddisfare una fantasia così bizzarra e inspiegabile, questo giovane uomo al suo debutto compromette tutto il suo avvenire per esporsi per sempre al disprezzo dei suoi concittadini?
Tutti gli altri saggi, a parte il signor Grotefend, che senza conoscere il carattere del giovane studioso, ricevettero la comunicazione del suo libro, si sarebbero appassionati alla scoperta perchè, lo ripeto, niente è più verosimile di questo racconto. Noi faremo giudicare al pubblico, ponendo sotto i suoi occhi alcuni estratti di questa brochure, che meriterà sempre di essere considerata come un prodotto sia curioso sia interessante, qualunque possa essere in definitiva l'opinione a cui si giungerà sul conto del suo autore. Noi cominceremo dalla storia mitica di Mèlicerteovvero Melqart, l'ercole di Tiro (Livio, II, 9-15).

Questo mito è raccontato seguendo i canti sacri che Sanchuniathon sentì a Tiro, nella sua infanzia, e il cui senso meraviglioso dovette fare una forte impressione sul suo spirito. L'idea alla base di questo mito é che non ci si può elevare a divinità se non conseguendo un grande e nobile scopo attraverso tutti i pericoli e superando tutte le fatiche. Mèlicerte si propose una meta lontana, sull'altra costa del mare tempestoso, al confine della terra (cap. 10). Questa meta è degna d'un dio: colui che la raggiungerà s'innalzerà verso la divinità.

Mélicerte arriva in effetti a Tartessus, i suoi contemporanei attoniti, gli dedicarono dei templi e degli altari e lo invocarono come facevano con Kronos e con gli altri dei. Del resto é incontestabile che questo mito riaffermi ancora di più dei ricordi storici, come per esempio la nozione di una grande quantità di metalli preziosi in Spagna.
L'autore comincia con il raccontarci una avventura amorosa della gioventù di Mélicerte e la fine tragica di questo amore. I figli diDémaroon, Mélicerte e Isroas, dopo una spedizione contro i giganti, spartendosi il bottino conquistato al nemico si disputarono il possesso di Déisone3giovane figlia delle montagne, di rara bellezza, di cui Isroas si era impadronitò. Mélicerte propose di rimettere la scelta alla giovane, Isroas acconsentì e Déiasone scelse Mélicerte, perché lui era più bello di Isroas4che era brutto. Mélicerte dunque celebra la sua sposa con dei canti che si erano conservati fino ai tempi di Sanchuniathon e che venivano cantati alla festa di questo eroe.

Ma Isroas venne per togliere con la forza Déisone e assediò la torre di Mélicerte. Invano quest'ultimo tentò di riappacificarlo.

"L'avvoltoio uccide l'avvoltoio e il cedro di montagna capovolge suo fratello nella sua caduta. Ma perchè tu desideri il combattimento, perchè tu vuoi la guerra contro tuo fratello? Tu conosci il mio coraggio, io non vorrei mai incontrarti in combattimento. Non siamo noi, o fratello mio, due torrenti che si slanciano nella stessa valle? Perché tu cerchi il combattimento contro di me, Isroas?"
Quando Isroas si rese conto che non poteva inpadronirsi della giovane ragazza, la colpì da lontano con una freccia, affinché suo fratello non potesse gioirne. Mélicerte accorre e la trova morta. La piangerà tre giorni e chiese dunque ai Cabires dei vascelli con i quali, alla testa dei suoi numerosi compagni, fece rotta verso Cittium, i cui abitanti erano allora in guerra contro i montanari. Aiutati da Mélicerte i Cittiens riportarono la vittoria e, a riconoscimento di questo servizio, essi volevano che l'eroe diventasse loro re. Ma lui parte per la costa situata di fronte a Cittium, dove dimorava il fratello di suo padre, chiamato Jurus. Il racconto dell'intervista di Mélicerte con il vegliardo cieco è molto toccante. In quel luogo egli si ferma per qualche tempo,perchè il mare è tempestoso e i venti soffiano con violenza. Jurus, sentendo arrivare la sua fine, da la sua benedizione a Mélicerte, secondo un'antica usanza orientale, lo esorta a proseguire il suo viaggio e gli predice l'avvenire:

"Tu trionferai sul mare sconosciuto e primo tra i mortali vedrai i confini della terra. Tu diverrai così grande che Kronos e gli altri dei ti guarderanno come un loro pari".
Jurus morì, Mélicerte lo seppellì e lo pianse tre giorni. il quarto giorno si rialzò, si purificò e si imbarcò con i suoi compagni per proseguire il suo viaggio. Ma una violenta tempesta lo fece errare a lungo sul mare. Infine essi entrarono in una baia ma siccome trovarono un gran numero di bassifondi fecero naufragio e alcuni uomini dell'equipaggio morirono. Tuttavia la maggior parte si salvò e raggiunse la riva. Di primo acchitto essi pensarono di costruirsi un nuovo vascello su questa spiaggia ma furono costretti a rinunciare perchè le foreste del paese non offrivano loro i materiali da costruzione ed anche perchè in quei paraggi gli scogli e i bassifondi rendevano la navigazione molto pericolosa. Essi decisero dunque di risalire la costa fino a che trovassero un porto sicuro e dei materiali utilizzabili.

Questo naufragio dovrebbe aver avuto luogo sulla costa occidentale dell'Italia perchè la contrada dove arrivarono i viaggiatori si chiamava Ersiphonie5.
Essi si stabilirono ai piedi di una montagna che chiamarono Liban6e risulta, dalla comparazione con altri passaggi, che sotto il nome di Ersiphonié s'intende le coste della Liguria e con quello di Liban le Alpi. C'era anche un cammino che conduceva al di là della montagna, lungo le coste del mare. Mélicerte, che aveva appreso che questa montagna era sacra e che vi risiedevano gli dei, mandò avanti lungo il cammino indicato i suoi compagni e lui stesso scalò la montagna per sacrificare e pregare. Similmente nella leggenda ebraica il popolo resta nella pianura e solo Mosè salì nella sommità della montagna per mettersi in contatto con la divinità.
Un altro punto di comparazione si presenta nell'una e nell'altra tradizione; in quanto il soggiorno di Mélicerte sulla montagna fu di quaranta giorni, come quello di Mosè (vedere Esodo XXXIV, 28).

L'eroe fenicio sopravvisse ad un incontro ravvicinato con la divinità quindi ridiscese appresso ai suoi compagni che durante questo tempo avevano costruito un vascello sulla riva di un grande fiume. Questo fiume non potrebbe esser altro che il Rodano in quanto si dice che Mélicerte prima di ritrovare i suoi compagni, dovette discendere per cinque giorni dirigendosi ad ovest. Qui l'autore aggiunge alcuni dettagli sulla montagna sacra, Mélicerte è il solo mortale che ha scalato questo picco inaccessibile in quanto, al di là delle difficoltà di una natura selvaggia, una tale impresa presentava delle difficoltà che dovevano scoraggiare i più audaci. In effetti nelle paludi e nei luoghi che circondavano la montagna si trovavano dei dragoni di una grandezza smisurata che afferravano chiunque s'avvicinasse per divorarlo e nelle foreste vicine, in mezzo agli alberi, si vedevano dei fantasmi spaventosi. La parte di mezzo della montagna è avvolta dalle nebbie e da nuvole. Al di sopra delle nuvole si innalza la cima più alta, coperta di nevi eterne. Li si trova la dimora degli dei, inaccessibile a tutti i mortali. Mélicerte si rimette in mare con il suo nuovo vascello ed approda in un'isola in cui si trovavano numerose mandrie di buoi. Egli desiderava procurarsi alcuni capi di bestiame in quanto si trovava in grande affanno. Ma l'avaro ed inospitale Obybacros7a cui appartenevano quelle mandrie rifiutò di accogliere le sue preghiere e Mélicerte si vide costretto a ricorrere alla violenza per allontanarlo. Durante quel periodo i suoi compagni prendevano tranquillamente tutto il bestiame di cui avevano bisogno e opprimevano Obybacros con le loro canzonature, che da lontano sfogava il suo furore con orribili ingiurie. E' inutile far notare la conformità perfetta che esiste tra questa tradizione e quella in cui i greci raccontano del furto dei buoi di Gerione commesso da Ercole. Quest'ultimo ha preso evidentemente vita presso i fenici e i greci non hanno fatto altro che abbellirlo ed attribuirlo al loro Ercole8. Del resto i fenici ed i greci sono concordi sul luogo della scena, che gli uni e gli altri posizionano nelle isole baleari. Così Mélicerte era giunto sulle coste della Spagna. Partito da questi luoghi egli fece naufragio sulle coste di un'isola vicina. Quest'isola era ricoperta di foreste e, siccome Mélicerte era malato, nessuno osava penetrare in questo bosco profondo per cacciare, perchè tutti erano spaventati dai terribili suoni che provenivano da quei luoghi, simili al ruggire d'un leone temibile. Essi si dovettero accontentare di conchiglie e pesci che si trovavano in abbondanza sul posto. Resosi conto della paura dei suoi compagni Mélicerte sente rianimarsi il suo ardore cavalleresco e malato com'era, non trovando alcuno che lo volesse accompagnare , si avventurò da solo in mezzo alla foresta. Ben presto, nel mezzo del bosco più fitto, scorse la femmina di una grande bestia che era addormentata. Al rumore dei passi dell'eroe questa si risvegliò e gli ordinò di avvicinarsi. Lui obbedì ma, prodigio! Le gambe di questa femmina terminavano a coda di serpente. Mélicerte che non conosceva paura avanzò intrepido per conoscere la sua volontà. Lei gli disse di essere una delle serve di LE'IATHANA9, la regina dei serpenti, e lo invita a seguirla. Mèlicerte acconsente e trova in una caverna la regina attorniata dai suoi seguaci, tutti simili a lei. La regina gli racconta di essere stata cacciata dai suoi territori da Masisabas10, che la tiene in questi luoghi grazie ai suoi incantesimi. Ma aggiunse, ti ho scelto per vendicarmi, perchè vedo che tu sei un uomo di cuore. Vai dunque, tu lo incontrerai a Tartessus, ai confini del mondo e quando sotto i tuoi colpi lo abbatterai, troverai per ricompensa nella sua dimora delle immense ricchezze. Così disse e, congedandolo, gli diede una bottiglia che conteneva un veleno mortale. Intingendo le sue carni in questo veleno non poteva fallire nel dare la morte al suo nemico. Mèlicerte allora si premurò di riguadagnare la riva dove raccontò ai suoi compagni i prodigi di cui era stato testimone e l'accoglienza ricevuta. I suoi compagni erano meravigliati dal suo racconto e si affrettarono nel riparare la nave. Dopo diversi giorni essi fecero rotta verso ovest e approdarono infine sulla terra ferma. Essi sbarcarono e videro all'interno del paese di Tartessus una cittadella che, secondo la descrizione di Léiathana non poteva essere che la dimora di Masisabas. Costui, che aveva visto da lontano il vascello approssimarsi alla costa, non attese che gli stranieri lo attaccassero e accorse verso la riva per ingaggiare il combattimento. Egli era di taglia smisurata e sorpassava Mèlicerte di una testa; le sue armi brillanti, la sua forza prodigiosa, tutto ciò sembrava far dubitare della vittoria dell'eroe fenicio. Un incidente inatteso rese la posizione di Mélicerte ancora più difficile perchè mentre egli marciava incontro al suo nemico il suo arco, teso con troppa forza, si ruppe e cos' si vide impossibilitato a far uso del veleno che Léiathana gli aveva donato. La tradizione ha senza dubbio aggiunto questo episodio per mostrare in quale modo un eroe, con la sua sola forza e senza alcun aiuto può portare a compimento qualunque impresa. Da quella distanza Mélicerte lanciò un giavellotto contro il suo nemico con tanto vigore da passarlo da parte a partee da appenderlo ad un albero li vicino. La vittoria di Mélicerte è assicurata, si avvicina a Masisabas e gli taglia la testa. Subito dopo segue l'elencazione dei tesori che il vincitore trovò nella cittadella conquistata e che consisteva in molto oro e in cumuli enormi d'argento11. All'udire di questa impresa gloriosa gli abitanti delle contrade vicine accorsero per rendere omaggio all'eroe e testimoniargli la propria riconoscenza. Gli portarono anche una enorme quantità di metallo prezioso in regalo. Mèlicerte apprese da loro che li vicino finiva il mare e vi si trovava uno stretto che conduceva nell'oceano. A questa notizia egli risalì subito sulla nave e seguendo la direzione indicata arrivò, il giorno stesso, allo stretto. Siccome era già tardi decise di non discendere a terra se non il giorno dopo. Gli abitanti delle coste vedendo sospesa alla prua della nave la testa di Masisabas che fino ad allora avevano considerato invincibile, cantarono le lodi e il coraggio di Mélicerte e lo accolsero con gioia. Così Mélicerte aveva infine raggiunto lo scopo che si era proposto da così tanto: "Fu il primo ad arrivare ai confini della terra. Prima tra tutti i Sidoni e Tiri, penetrò nelle distese deserte dell'oceano. Così ricevette la ricompensa che gli era stata promessa".

Agli occhi degli abitanti, razza grezza e selvaggia, tutto in questi stranieri era oggetto di ammirazione, la loro nave, i costumi, gli utensili. Essi vivevano di pesca e di caccia e avevano, cosa che è vera, delle barche ma molto piccole e grossolanamente costruite. Non indossavano vesti e si coprivano con pelli di animali perchè non conoscevano ne l'arte del tessere ne alcun'altra arte. Tutti i loro mobili erano lavorati grossolanamente e con estrema semplicità. Gli stranieri al contrario avevano una grande nave, dei bei vestiti, dei mobili eleganti. Per queste circostanze e soprattutto per le grandi imprese che aveva compiuto essi riconobbero che Mélicerte era un dio. Essi guardavano anche i suoi compagni come degli dei, ma come dei inferiori.
Poi Sanchuniathon racconta della costruzione delle due colonne ad opera di Mélicerte, il suo regno a Tartessus e la sua apoteosi. Sull'una e sull'altra riva dello stretto si trovava una montagna in cima alle quali egli elevò le colonne. Queste due colonne si vedono ancor oggi e devono il loro nome a Mélicerte.
Tutti sanno che la leggenda dell'Ercole greco si è appropriata di questa spedizione ma siccome nei tempi di molto posteriori, in cui anche i greci si addentrarono per queste contrade, le antiche colonne di Mélicerte erano sparite da lungo tempo e l'Ercole greco elevò le montagne di Gibilterra e di Ceuta a monumento delle sue esplorazioni, da allora non si è più smesso di chiamarle colonne d'Ercole.
Mélicerte si stabilì in questa contrada e si sforzò di iniziare gli abitanti alla civiltà orientale. Prima di tutto costruì una fortezza e una città. Gli abitanti di Tartesso riconoscenti gli dedicarono dei templi nella città e nelle contrade circostanti dove le sue immagini, in argento puro, erano oggetti di culto religioso. Un giorno, infine, che egli era partito per la caccia senza seguito, non fece più ritorno e non si riuscì mai a ritrovare nè il suo corpo nè la tomba perchè, secondo le opinioni dell'antico oriente, il luogo della tomba degli uomini che come Mélicerte sono stati ammessi alla frequentazione della divinità, resta per sempre sconosciuto. E' per questo che mai nessuno ha visto la tomba di Mosè (Deuteronomio. XXXIV,6).
Dopo la scomparsa di Mélicerte quelli tra i suoi compagni che erano sopravvissuti, decisero di far conoscere alla loro patria i risultati delle loro spedizioni e scelsero per questa missione gli uomini non sposati perchè molti tra loro avevano sposato delle donne del paese. Dopo molte fatiche e pericoli gli inviati arrivarono infine presso la madre patria e costruirono nello stesso luogo dal quale erano partiti, un tempio un tempio in onore di Mélicerte. "Questo tempio si vede ancora nella vecchia città dei Tiri". La stessa città di Tiro fu costruita più tardi in quello stesso posto.
Nell'ultimo capitolo di questo libro, l'autore descrive le statue del dio e le feste che venivano celebrate in suo onore, il giorno prima della partenza, da coloro che si recavano a Tartesso.
Certamente sarà difficile dare un colore più naturale a questo simbolo così interessante del progresso della navigazione e del commercio dei fenici. Non vi é minor verità nel racconto del viaggio di scoperta che il re di Tiro, Joram o Hiram, contemporaneo di Salomone, fece eseguire dalla sua flotta che arrivò fino all'isola di Ceylon:

Gli Etiopi12spiegarono a Joram che verso il mezzogiorno si trovavano molte ricche e vaste contrade, che la popolazione era immensa, i prodotti vari e notevoli, che queste consistevano in oro, argento, perle e pietre preziose, in legni d'ebano, avorio, scimmie, pappagalli, pavoni ecc... Che tutti questi prodotti si trovavano nel Chersoneso più lontano verso oriente, là dove gli uomini vedono il sole sorgere dalle onde del mare. Joram inviò dunque una rappresentanza a Natambalos, re di Babilonia, cui fece dire: "Io ho saputo che il paese degli Etiopi è vasto e popoloso e che da Babilonia ci si può arrivare facilmente, non così è da Tiro. Se tu consenti a fornire ai miei rappresentanti i vascelli necessari per questo viaggio io ti invierò cento mantelli di porpora". Il re si mostrò disposto ad acconsentire, ma ritirò la promessa quando i mercanti etiopi che si trovavano a Babilonia preoccupati per il commercio, l'ebbero minacciato di abbandonare la città, se egli avesse dato i vascelli ai Tiri. Allora Joram offrì al re degli ebrei, Irenius (Salomone), di fornirgli tutta la legna necessaria per la costruzione di un nuovo palazzo se egli consentisse a cedergli un porto sul mare d'Etiopia, e Ireneo gli concesse la città e il porto di Eilotha (Elath). Nonostante nei pressi di questo luogo vi fossero delle immense foreste di palme, purtroppo non vi si trovava legno da costruzione, così Joram si vide costretto a farvo portare, con ottomila cammelli, ciò di cui avava bisogno. Venne costruita una flotta di dieci vascelli, della quale Kedar, Jamine e Kotilos ottennero il comando. Lankapatus13, l'unico dei tre etiopi sopravvissuto, desiderando rivedere la sua patria, s'imbarco con loro e la flotta alzò le vele. Il mare d'Eilotha fu ben presto superato ma delle tempeste non consentirono di attraversare lo stretto per entrare in alto mare. Essi decisero dunque di sbarcare in un'isola per attendere la fine del cattivo tempo. Durante il loro soggiorno in quest'isola, seminarono del frumento in una zona favorevole e raccolsero una messe abbondante. Poi essi superarono lo stretto, si diressero a Est e incontrarono, molto tempo dopo aver lasciato l'Arabia, dei vascelli babilonesi che rientravano dall'Ethiopia nella loro patria. Il giorno seguente i fenici intravvidero il paese degli ethiopi, deserto e sabbioso sulla riva ma erto di montagne nell'interno. Per dieci giorni essi costeggiarono questa costa inospitale, facendo sempre vela a est e raggiunsero infine il punto dove questa si dirige verso sud, a una distanza infinita, ricoperta di città popolose. Gli etiophi possedevano anche dei vascelli e si davano alla navigazione, ma i loro bastimenti non erano equipaggiati per la guerra e l'uso della vela gli era sconosciuto. I Tiri proseguirono lungo la loro rotta per trentasei giorni e arrivarono infine sull'isola di Rachius. Essi accostarono su una riva bassa e coperta di alberi enormi, ma durante la notte un vento impetuoso li allontanò e corsero un grande pericolo fino al momento in cui si trovavano in un ormeggio sicuro. All'interno del paese si trovavano molti villaggi molto popolosi e, quando i fenici avanzarono nell'interno, furono circondati dagli indigeni che accorsero in gran numero e li condussero dal governatore della provincia. Costui li accolse sontuosamente per sette giorni. Nel mentre inviò un messaggero al re della contrada per informarlo dell'arrivo di stranieri e domandare disposizioni. Il settimo giorno il messaggero tornò e il giorno seguente il governatore condusse i Tiri dal re, che abitava nella grande città di Rochapatta, all'interno dell'isola. La marcia era aperta da una truppa di dorifori (lancieri) che il re aveva inviato per scortare gli stranieri e per allontanare, con il rumore delle loro armi, gli elefanti di cui questo paese abbonda e che rendevano questo viaggio molto pericoloso. Di seguito venivano i Tiri i cui capi, Kedar, Kotilos e Jamine venivano trasportati con delle lettighe, quindi vi erano gli abitanti del villaggio che portavano i doni destinati al loro sovrano. Veniva infine il governatore, montato su un elefante e circondato dalla sua guardia. Durante il viaggio arrivarono al margine di un fiume in cui si trovava un gran numero di coccodrilli che divorarono uno degli uomini della scorta. Al termine del terzo giorno essi videro davanti a loro la città di Rochapatta, circondata da alte montagne. Nel momento in cui si avvicinarono alla città una moltitudine innumerabile gli andò incontro, alcuni montavano elefanti, altri su asini, altri ancora su portantine, ma la maggior parte erano a piedi. Là essi furono ricevuti da un ufficiale che li condusse per il grande e splendido castello del re e chiuse le porte alle loro spalle, affinchè la folla dei curiosi non potesse entrare appresso al corteo. Quindi egli li presentò al re Rachius che era seduto su di un tappeto prezioso. I Tiri gli offrirono i loro regali che consistevano in cavalli, in stoffe di porpora e in seggi di legno di cedro. Il re da parte sua gli fece avere delle perle, dell'oro, duemila zanne di elefante e una grande quantità di cannella. In più gli offrì ospitalità per trenta giorni. Alcuni Tiri morirono sull'isola, uno di loro per malattia, gli altri colpiti dagli dei.

Un Tiro, avendo trovato dello sterco di cervo, tracciò alcuni segni sulla sabbia e invitò uno dei suoi compagni, che si trovava vicino, a giocare con lui. L'altro cercò vanamente dello sterco di cammello, in quanto non esistono cammelli sull'isola, e per sostituirlo prese dello sterco di vacca che tagliò a pezzi, poi si piazzò di fronte al suo compagno poggiò il pezzo di sterco tra i segni tracciati sulla sabbia e il gioco cominciò. Un sacerdote che passava di là li invitò a cessare questo gioco in quanto lo sterco di vacca era sacro in quel paese, ma i Tiri risero di quella ingiunzione e continuarono a giocare. Il sacerdote si allontanò ma alcuni istanti dopo i due giocatori caddero morti, tra il terrore di chi essisteva. Uno dei due morti era nato a Gerusalemme.
La grande isola di Rachius è circondata dal mare ad eccezione del nord dove essa comunica con il continente di fronte attraverso un istmo. Baaut, di cui si vedono ancora le impronte impresse sulla montagna, ha creato quest'isola impastando il fango primitivo. E' da Baaut14che discende il gran re.

L'isola ha una larghezza di sei giorni di marcia e più di 12 di lunghezza. I prodotti sono preziosi e vari. Il mare fornisce con abbondanza agli abitanti della costa pesci di gusto gradevole e la selvaggina abbonda nelle montagne. La cannella è molto forte e gli elefanti che si incontrano sull'isola sono i più grandi che esistono. Nei fiumi si trova dell'oro e pietre preziose e sul bordo del mare le perle.
Quattro re regnano sul paese, ma essi sono sottomessi ad un re supremo al quale essi inviano come tributo della cannella. Essi non gli donano oro perchè il re ne possedeva in grande quantità. Il primo re ha i suoi possedimenti a sud, nella parte in cui si trovano gli elefanti che vi si possono catturare in gran numero. Il secondo ad ovest, dove si raccoglie la cannella; è in questa contrada che si verificò lo sbarco dei Tiri. Il terzo ha il suo regno a nord dove si raccolgono perle in abbondanza. Una muraglia vi è stata elevata, lungo tutto l'istmo, per proteggere l'isola contro gli attacchi dei barbari del continente. Infine i possedimenti del quarto sono ad est, ed è li che si trovano le pietre preziose in profusione. Tutti e quattro sono fratelli del re di Rochapatta, il re supremo, dignità che è sempre conferita al primogenito. Questo re supremo possiede mille elefanti neri, che sono molto comuni nel paese e cinque bianchi, la cui specie è estremamente rara e non si trova nelle altre contrade. Quando i cacciatori catturano un elefante di questo colore, essi lo conducono immediatamente al redi Rochapatta perchè la legge non permette che a luidi possederne di simili. I coccodrilli sono pure molto comuni nel paese, ma gli abitanti li cacciano nelle paludi e li uccidono a colpi di spiedo. I Tiri assistettero a questo tipo di caccia dieci giorni dopo il loro arrivo a Rochapatta. I coccodrilli non sono l'unica causa di paura che si incontra in questi luoghi solitari. Le mosche vi si trovano numerose e così assetate di sangue che i messaggeri del re, che per essere più veloci sono obbligati ad attraversare la foresta più profonda, sono sovente uccisi da queste.

Tutti questi dettagli Joram, al ritorno dei vascelli, fece incidere su di una colonna, che per suo ordine venne eretta sul pavimento del tempio di Mélicerte. Risponde al vero che questa colonna sia stata rovesciata dal terremoto che si è verificato un anno fa ma questa non è stata infranta e vi si può ancora leggere l'iscrizione.
Noi crediamo dover riferire qui che un saggio indianista, a cui abbiamo sottoposto questo estratto, non ha notato alcunchè che possa denotare una falsificazione. Non possiamo che avere la stessa opinione sull'ottavo libro che contiene un censimento delle forze militari di Tiro e dei paesi frequentati dai loro vascelli.

Ottavo libro

Periplo di Joram
I. Redazione del periplo (cap. 1 e 2).

"Questo è il periplo del quale Joram, re di Tiro, ha ordinato la redazione a Joram, sacerdote di Mélicerte, e che ha voluto che si incidesse su una colonna elevata nel vestibolo del tempio di questo dio. Egli ha ordinato allo scriba Sydyk di farne quattro copie da inviare agli abitanti di Sidone, Biblo, Aradus e Béryte".
Ma pressochè tutte queste copie andarono perdute e noi abbiamo visto anche che la colonna è andata distrutta. Un solo esemplare fu conservato nel tempio di Baaltis a Biblos, l'autore che ne ha riportato i termini che vi erano scritti. L'inizio era così concepito:
"Joram, figlio di Bartophas, re di Tiro, ha fatto chiamare davanti a se Joram, figlio di Madynus, verso il tempo dei primi fichi, e gli ha detto: prendi il tuo libro e redigi il catalogo di tutti gli stati, di tutte le isole, di tutti i paesi barbari, delle loro forze, delle loro triremi, dei loro navigli e dei loro carri; poichè le nostre triremi, navigando verso l'isola di Rachias, hanno raggiunto i confini della terra ad est cosicchè noi conosciamo i paesi più lontani e i loro abitanti e che noi sappiamo ciò che ignoravano i nostri padri, essi che navigarono verso le isole e verso l'occidente senza conoscere le contrade orientali che a noi sono oggi note. Scrivi tutto là affinchè il ricordo si trasmetta ai nostri discendenti. Quando il re ebbe detto queste parole io mi prostrai e m'allontanai per redigere questo scritto..."

II. Possedimenti dei Tiri sul continente (Cap. 3-8)

I Tiri e Sidone (Cap. 3-4)

Similmente a tutti gli altri re, il re di Tiro è il più potente, allo stesso modo la città di Tiro è la più grande e la più ricca di tutte le città. E' in essa che sono state inventate tutte le arti. E' proprio in questa contrada che i compagni di Usous hanno costriuto per primi un vascello per sottrarsi all'inseguimento di Hypsouranios; sono gli abitanti del paese che per primi si dedicarono all'agricoltura e ad altri lavori.
L'armata del re si compone di sessantamila combattenti, cento triremi ed una quantità innumerabile di vascelli da trasporto. Ci sono inoltre mille dorifori coperti di armature dorate e ottanta carri da guerra. Il tempio di Mélicerte e la città tutta è stata costruita dai compagni di questo dio al loro ritorno da Tartesso. Nei pressi di Tiro si trovano le città di Hysora, Maene, Silype, Bethobarkas (che si chiama anche Bethataba) e Ramasé. La città dei Sidoni è anch'essa molto ricca. Le sue forze di terra consistono in centomila combattenti, mille dorifori e venti carri, le sue fore navali sono composte da sessanta triremi. Al territorio dei sidoni appartengono anche le città di Monychus, Jauphe, Moyra, Dibon (soggiorno dei figli del re), Nebra e Soate.

II Biblos, Aradus, Béryte (Cap. 5-7)

L'armata degli abitanti di Biblos consiste in ventimila combattenti, duemila dorifori e venti carri. Essi hanno inoltre ottantacinque galere. Nella loro città si trovano i templi di Kronos, fondatore della città, di Baaltis e di altri dei. Nei pressi di Biblos si trovano le città di Asmania, di Jasude, di Nebite e di Nebra (città differenta da quella dei Sidoni).
Gli abitanti di Aradus hanno una armata di ottomila uomini, più mille dorifori, cinquecento arcieri, venti carri da guerra e cinquanta triremi. Le città del del loro territorio sono: Arboze, Kasauron, Itynna, Delibas e Asypotia. Tra Delibas e Itynna si trovano le Misybata15, pietre profetiche innalzate dal dio Ouranos. Gli abitanti di Béryte possono mettere in piedi diecimila combattenti, mille dorifori e quaranta carri da guerra. La loro marina si compone di trenta galere. La loro città è stata costruita da Eliun, che le ha dato il nome della sua donna, Béryte. Si ammirano soprattutto i templi di Pontus e Astarte'. Le città abitate dai Beriti sono: Arbe, Isbas, Sydrobal e Bethastaroth. Sul cammino che conduce a Byblos, nei pressi della città di Sydrobal, s'innalzano le rovine della torre degli egiziani che, guidati da Pasurgus, cercarono di conquistare la contrada. Una vergine, Adramot16, li sconfisse e distrusse il loro rifugio.

III Le montagne. (Cap. 8)

Le forze degli abitanti delle montagne ammontano a trentaduemila uomini, dei quali duemila arcieri. Essi non possiedono ne città ne vascelli ne carri da guerra e abitano in numerosi villaggi. E' presso di loro, nei villaggi di Gabara, di Oryx e di Gadra, che si trovano i Bétyles17, che sono anche questi degli oracoli stabiliti da Ouranos. I più celebri sono sulla sommità del monte Zetunus, che è ricoperto d'olivi, e lungo la strada che conduce dalla montagna a Tiro. Sulla montagna che c'è di fronte si trova il villaggio di Momigura, nel quale si trova una fortezza con delle trincee ed una guarnigione.
III Enumerazione delle forze di Tiro (Cap. 9)
Tutte queste città, questi villaggi, queste montagne, sono tributarie del re Joram: e quando questo principe si prepara alla guerra egli raduna a Tiro tutte le forze militari di cui dispone, cioè: seicentoottomila combattenti, centottanta carri, seimila dorifori, duemilacinquecento arcieri e trecentoventicinque triremi. Se la guerra dovesse aver luogo sul mare gli abitanti delle isole e delle colonie gli inviano il loro contingente che consiste in settantamila soldati, duemilaseicento arcieri e trecentottanta vascelli da trasporto.
IV. Possedimenti dei tiri oltre il mare (Cap. 10-14)
La prima delle isole è Cittium (Cipro). E' fertile e ben popolata. L'interno dell'isola è abitato da barbari empi e rozzi che assomigliano per i costumi e per la lingua alle genti del monte Libano. Lungo le coste ricche di approdi si trovano delle città, dei villaggi e delle fortezze costruite dai nostri antenati. La città di Cittium, fondata da Demaroon, possiede una armata di diecimila uomini, sessanta galere e cinquecento arcieri; ma non possiede carri il cui uso è sconosciuto nell'isola. Nella stassa contrada si trovano anche le città di Lydana e Gola, oltre ai tanti villaggi. L'isola contiene anche la città di Masuda18, che fu fondata dal Sidone Bimalus, capace di equipaggiare quattromila uomini e venti galere. Nei pressi di questa città, in cima ad una montagna, si trova un grande altare, dedicato a Kronos il quale, brillando ogni giorno d'una luce vivida, può essere visto dai navigatori anche con tempo piovoso.
Navigando verso occidente si incontra l'isola di Rodiche, in caso di guerra, può fornire tremila uomini e dieci vascelli. I Sidoni, in tempi molto remoti, vi hanno fondato una città, ma la infertilità del suolo ha costretto gli abitanti ad abbandonarla e da allora essi vivono dispersi in numerosi villaggi.
La costa opposta è al contrario fertile e molto popolosa. Ci si trovano tre insediamenti di Sidoni, uno di Aradi e quattro dei Tiri. I nomi delle città sidoniane sono Machira, Supha, Zoara; il nome dell'insediamento di Adado è Sale; quelli delle colonie Tire sono Ozyne, Bethomalkrot, Masaba e Casra. Gli abitanti di Machira hanno un'armata di cinquemila uomini e venti vascelli. Quelli di Supha possono armare duemila uomini e dieci vascelli, quelli di Zoara mille uomini e dieci vascelli. Gli abitanti di Sale, per parte loro, hanno millecinquecento guerrieri e una flotta di otto vascelli. Infine gli abitanti di Ozyne possono mettere in piedi duemila uomini; quelli di Bethomalkrot mille e duecento, quelli di Masaba cinquecento e quelli di Casra ottocento. Le quattro città riunite assieme possiedono quindici vascelli.

I Machiri, i Suphéens e gli Ozyneensi fanno spesso vela verso le isole e i distretti situati ad occidente per combattere i barbari di questi paesi, che si dedicano alla pirateria e hanno dei vascelli simili ai nostri.
L'isola di Cerates (Creta) ha una estensione considerevole. I Sidoni vi hanno fondato la città di Mapiza e i Tiri un insediamento chiamato Mapristor19, "perchè i Tiri vi hanno un porto". Mapiza fornisce tremila combattenti, quindici vascelli e cento arcieri, Mapristor quattrocento uomini e sei vascelli.
Nella montagna abitavano i Gerates, oggigiorno soggiogati ma che, oltremodo temibili sul mare, hanno fondato degli insediamenti nei paesi di Gaza.
Gadira, città ricca e popolosa, è una colonia di Mapiza. Vi si trova un tempio di Astarte circondato da mura, ciò che ha dato alla città il nome che porta20. La città ha settemila combattenti, duecento arcieri e una flotta di trenta galere. Sulla costa opposta i Gadiriani hanno popolato molti villaggi e dei castelli. Se partendo da quest'isola si naviga verso ovest in quattro giorni e con vento favorevole si arriva all'isola di Mazaurisa, anch'essa molto popolosa. I Tiri e i Sidoni vi abitano sei città, Nasbos, la città di Mélicerte, Jamnia, Jitron, Malkuba, Ophala e Moraba e molti villaggi. Queste colonie fornivano undicimila uomini e una flotta di trentotto vascelli21.
Da moraba si arriva a Mylité22, dove non si trova nessuna città ma solo dei villaggi. L'isola mette in piedi duemila combattenti e può armare quindici vascelli. Essa è ricoperta di altari consacrati ad Astarte Mylite.
Da là si arriva velocemente a Maphile, colonia popolata dagli Aradi, dai Bibli e da altri ancora. Nei tempi più antichi vi erano cinque colonie, che i selvaggi indigeni distrussero; gli abitanti di queste cinque città si riunirono in questo punto e vi costruirono una città. Le loro forze consistevano in quattromila combattenti e trentasei vascelli. Questo insediamento si trova sul paese di Tenga, contrada vasta ma praticamente deserta perchè povera d'acqua e bruciata dal sole. Navigando a nord di Mazaurisa si arriva in Ersephonie, dove si trovano quattro colonie, le cui armate ammontano a dodicimila uomini e venticinque vascelli.Questa forza imponente data all'epoca in cui, durante una guerra contro i Tartessi, i Sidoni inviarono dei rinforzi. Non c'è niente da temere dagli indigeni perchè sono poco numerosi e pacifici. In questo paese si trovai il monte Libnas, consacrato a Mélicerte, che vi ha lasciato l'impronta dei suoi piedi. nei pressi d'Ersephonie si trovano le due isole di Kiton e Gadyla23separate da uno stretto sul quale si trova una piccola città. Da là si arriva in dieci giorni a Tartesso, passando presso l'isola deserta di Léiathana e di Obibacros.
Dunque, se si riunissero tutte le forze di terra e di mare del re Joram, si troverà che la sua armata consiste di venticinque miriadi di combattenti in armi e la sua flotta in seicentoquarantatre vascelli. Egli possiede inoltre centottanta carri da guerra e immensi tesori perchè, se in tempo di guerra le città gli inviano truppe ausiliarie, in tempo di pace gli pagano un tributo.
IV Tartesso e gli Imyrchakines (Cap. 15)
I Tartessi, discendenti di Mélicerte, sono alleati dei Tiri ed abitano ad occidente. Il loro principe è Nausitanus, figlio di Charon, che è molto potente e possiede molte galere e altri vascelli. Questo popolo abita cinque grandi città e molti villaggi. Le contrade vicine sono ricche di fiumi, le montagne sono piene di ricche miniere d'oro e d'argento, soprattutto nei villaggi di Ardiabe e Ophile.
Tartesso si trova sullo stretto e sull'Oceano. L'Oceano settentrionale non è navigabile a causa del sollevamento delle maree, quello del sud perchè le coste sono deserte. Là vi si trova il promontorio di Tiborsypha. Le contrade più lontane di questo oceano sono le Imyrchakines, cioè le isole di Hyresa, Hirisima, Mazaurisa e Igydula che erano molto popolate in principio ma che sono state quasi interamente spopolate a causa di una peste. Queste si trovano a dieci giorni di viaggio dal promontorio di Tiborsypha24.
VI - Il sud, il nord e l'est della terra. (Cap. 16)
Nei pressi dei Tiri abitano i Cerati, gli Ebrei, gli Egiziani, gli Arabi, i Damasceni e gli Hamathéens, alleati di Joram. In Egitto si trova il Nilo. Risalendolo, in sette giorni, si arriva alla capitale dove si trova un gran numero di schiavi etiopi evenuti dalle contrade meridionali. Essi hanno la pelle nera, ma per i loro costumi e il loro modo d'essere assomigliano molto agli Egiziani.
Gli etiopi abitano le contrade più meridionali della terra. Al nord abitano gli Armeni, i Frigi e i Lidi; ancora più a nord i Cambri, gli Amydones e i Titani.
I Titani sono una razza molto selvaggia e seminuda che va alla ricerca, in Media, di cavalli bianchi che trattano come degli dei. Essi abitano nei dintorni di un grande lago e si trovano a venti giorni di marcia dai Medi.
Verso il levante abitano i Babilonesi, i Medi e gli Etiopi. La città di Babilonia è grande e popolosa. La Media nutre numerose mandrie di cavalli bianchi. Il paese degli Etiopi è sabbioso e arido sulle coste, montagnoso nell'interno. Il paese più remoto ad Oriente è il Chersoneso di Rachius, dove sono arrivate le triremi di Joram.
Citiamo ancora qualche canto nazionale che si trova riportato nell'opera.
Sicuramente vi è una poesia molto bella e una serie d'immagini degne della Bibbia nel canto funebre su alcuni guerrieri Tiri morti a Tartesso, che il signor Grotefend paragona al famoso cantico di Ezechiele:
Il mare ti ha rigettato sulla riva
come una perla brillante,
dove sei nato, nel cielo, astro luminoso?
Il continente brilla del tuo chiarore
e il mare riflette la tua bellezza.
O regina dei flutti, quando vedi il tuo popolo navigare
tu ti rallegri come una madre felice
alla vista dei suoi figli.
Ma guarda lontano
e delle lacrime scenderanno sulle tue guance
e bagneranno il suolo
e il mare risuonerà dei tuoi canti tristi.
Perchè le tue triremi
sono state distrutte a Tartesso
e i più coraggiosi dei tuoi figli
distesi morti su una riva lontana
sono preda degli avvoltoi e dei pesci.
Non vi è minor grandezza in questo canto di un re di Hamalh bandito dai suoi territori:


Ammisus mi ha cacciato dalla città

i miei servi mi hanno schiacciato sotto le loro canzonature

ma io farò fustigare i miei servi

e io ucciderò Ammisus.

Un tempo riposavo sulla porpora di Tiro

e il mio cuscino era fatto di seta Babilonese.

Ma voi credete che io tremi

perchè l'oscurità discende sulla foresta

e perchè la tempesta passa attraverso gli alberi

come fosse un leone ruggente?

Credete voi che io mi spaventi

per l'aspetto delle rocce

che brillano al chiarore della luna

e dei pallidi fantasmi

che sorgono da qualche zolla di terra?

Il leone è forse senza coraggio nella sua oscura tana?

Avete mai visto il cinghiale prender paura?

Il cinghiale selvaggio

percorre senza paura u sentieri di montagnardse il ruggito del leone fa tremare i suoi nemici.

Dopo la lettura di questi diversi estratti si capirà perchè alcuni uomini quali Gesenius e Grotefend abbiano creduto all'autenticità del libro dal quale noi abbiamo attinto. L'opinione del signor Grotefend è cambiata, è vero, ma i suoi dubbi attuali sembrano piuttosto dovuti alle informazioni che gli sono giunte sul carattere del signor Wagenfeld che sulla sua opera.
D'accordo, la lettera del signor Grotefend non prova che la falsificazione sia completa, perchè sembra egli credere all'esistenza di un manoscritto che il signor Wagenfeld avrebbe alterato.
La pubblicazione del testo greco che è stata formalmente promessa fornirà armi sicure alla criticae se, in definitiva, si avrà nel signor Wagenfeld un successore di Annio da Viterbo e di Ligorio, non ci si potrà astenere dal dispiacersi che con tanta conoscenza, con un tale sentimento delle cose antiche, con una immaginazione così poetica e feconda, egli abbia compromesso il suo avvenire letterario rendendosi colpevole di una soperchieria che non potrà in nessun modo nuocere a coloro che ha ingannato, ma che avrà per sempre influenzato il suo carattere e il suo onore.

Ph. Le Bas.
______
Io non aggiungo altro se non che sarebbe bello leggere il manoscritto per intero, io per ora non l'ho trovato, ma la ricerca continua e spero che presto possa dare i suoi frutti!
Alla prossima,
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO


1M.Heeren, Idées sur la politique et le commerce des peuples de l'antiquité. Tomo II, pag 2.

2Menandro d'Efeso, storico greco del II sec. a.C. citato da Giuseppe Flavio come autore della storia di Tiro.

3In ebraico DECHEN= fertilità. W.

4In ebraico Ich roa= l'uomo della malvagità, l'uomo della bruttezza.

5in ebrico Erets tsafon, la terra del nord, relativamente alla Sicilia e all'Africa, nome che gli avrebbero dato i coloni in quanto per loro le coste della Liguria erano ciò che si trovava più a nord. W.

6In ebraico Lebanon=montagne di neve, Alpi. W.

7In ebraico: Abi Bakar=padre del bestiame.

8Pure Giustino (XLIV,4,15) dice che Ercole è originario d'Asia. Herculem ex Asia. W.

9In ebraico Livythan=ricurvo, sinuoso. Espressione usata parlando di mostri di grandi dimensioni, coccodrilli e serpenti.

10O Masisabal la freccia di Baal. W.

11Le ricchezze della Spagna in metalli prezioni erano celebri nell'antichità. Giustino (lib. XLIV, 1,6) ne parla.

12Si tratta di tre giocolieri indiani che si trovavano da lungo tempo presso la corte del re di Sidone. Il signor Grotefend pensa che per Etiopi si debba intendere gli abitanti di Ceylon.

13In sanscrito Lankapati, il signore di Lanka, Ceylon.

14Si è pensato che il nome Baaut sia stato usato qui per designare Budda e da ciò si è creduto avere prova contro l'autenticità del lavoro del signor Wagenfeld. Ma, da una parte, non è dimostrato che il culto di Budda non esistesse a Ceylon nel X° secolo a.C., dall'altra parte niente dimostra che qui Baaut stia per Budda. Baaut è il nome che i fenici davano al Chaos. Aver visto le tracce dei passi di Baaut in un luogo, potrebbe significare riconoscere le tracce di una fondazione primitiva. Ritrovare le tracce di un dio negli anfratti inaccessibili è un'idea religiosa comune a tutti i popoli e di cui noi abbiamo visto più alti esempi. Del resto queste pretese tracce di Baaut si chiamano, oggigiorno, piedi d'Adamo.

15τὰ Μισύβατα, μαντεῖον λίθιτον.ch. vi. In ebraico Matsebeth. W

16Filone in altri punti dà al nome Adramot la forma grecizzata Adramusa. In arabo Hadhramaut.

17I bétyles sono delle pietre arrotondate a cui si attribuiva una virtù profetica. Se ne parla nella genesi XXIV, 18 e seguenti.

18Il signor Grotefend crede di vedere in Masuda il nome Amathonte (Amathus).

19In ebraico Mifrats Tor, il porto di Tiro. W.

20Γάδειραν γὰρ τεῖχος λέγουσιν, aiuta Filone. In ebraico Ghedera. W. Il signor Grotefend nella sua prefazione pensa si tratti di Cythète.

21Mazaurisa è la Sicilia, paese (in arabo Mesr) del fuoco (in ebraico Ech). Essa era così chiamata a causa del suo vulcano. W. In quanto ai sei insediamenti fondati dai Tiri e dai Sidoni in Sicilia, il signor Grotefend rinvia a Tucidide, lib. IV, cap. II.

22Malta secondo Grotefend.

23la Corsica e la Sardegna.
A me questo nome sembra strano in quanto da altre letture mi risulta che per i Cartaginesi la Sardegna fosse conosciuta col nome di Munivia. A.Rugolo

24Il nome di Imyrchakines si spiega con l'ebraico: Iimrakhokim, isole lontane. Si tratta evidentemente delle Canarie.

domenica 8 settembre 2013

La foresta pietrificata di Martis (Sardegna)

Tra i percorsi possibili in Sardegna ve ne sono alcuni paleobotanici. Uno di questi porta nelle campagne di Martis (piccolo comune dell'Anglona, in provincia di Sassari) dove è possibile vedere ciò che resta di una antica foresta pietrificata.
 
 
 
Si può arrivare in macchina fino a poche centinaia di metri dal terreno, seguendo le indicazioni lungo la strada nei pressi del paese.

 
 
Lo spettacolo è particolare, un po perchè questi tronchi non sembrano far parte della vegetazione dell'Isola,

  un po perchè qualcuno ha avuto la bella idea di ammucchiarli l'uno sull'altro!
 I tronchi dovevano essere composti di diversi strati concentrici, forse di diversa consistenza visto l'effetto post pietrificazione.
 La maggior parte infatti sono cavi, come se solo la parte esterna più resistente sia riuscita a sopravvivere al tempo e alle intemperie.

Solo alcuni tronchi mostrano ancora la parte interna, che sembra comunque differente.

 
Come è possibile vedere da queste foto.

 

Alcuni tronchi sembrano quasi dei grossi funghi o dei cespugli pietrificati.
 Cosa può essere accaduto?
 E quando?
 Non saprei, potrei pensare che anche questa foresta si sia formata contemporaneamente alle altre, quella di Perfugas, poco lontana, o quella di Zuri-Soddì, in provincia di Oristano, ma preferisco ammettere che non ho alcuna idea del periodo in cui si sia formata e purtroppo le informazioni nel sito sono inesistenti.

Posso solo immaginare che una qualche catastrofe ambientale, un allagamento o un diluvio, avvenuto in tempi antichi, abbia causato la trasformazione.

Nel sito si possono notare dei lavori incompleti,


 alcune stradine sterrate e delle strutture in legno il cui significato mi sfugge





Questo è forse uno dei tronchi più particolari e grandi, come ho già detto sembra più un cespuglio o un grande cactus.
 

Invito i responsabili dell'area ad aggiungere qualche cartello con un minimo di spiegazioni e cercare di proteggere i tronchi per evitare che il tempo se li porti via. Non sempre è necessario spendere milioni di euro per preservare il passato...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 7 settembre 2013

Visita a Tharros

Tharros è una delle antiche città della Sardegna, purtroppo, come per tutti i siti archeologici dell'isola, la sua storia è incerta.
 
 
E' una città costruita su differenti livelli da differenti popolazioni o civiltà.
Sulla collina si vedono ancora i resti di un villaggio nuragico, sulla costa invece i resti della città romana e forse della precedente città fenicia.

 
Si pensa che i fenici vi si siano insediati sulla base del ritrovamento di un tophet ricco di urne, probabilmente spostate presso il vicino museo di Cabras.
 
Sembra comunque certo che la città sia molto antica e che il porto dovesse essere importante e molto conosciuto anche perchè doveva fornire un ottimo rifugio alle navi di passaggio in caso di mare in tempesta, cosa abbastanza frequente in quel tratto di mare.


La città fu utilizzata fino a circa l'anno mille, allora era la capitale del giudicato di Arborea. Ora è purtroppo in pessime condizioni e non credo che potrà migliorare.
 

Sul promontorio che la sovrasta si trova anche una splendida torre, da questo punto è possibile godere dello splendido panorama offerto dal mare color smeraldo, usata per l'avvistamento dei nemici saraceni.

Il biglietto per la visita del sito comprende anche l'ingresso al museo di Cabras, che purtroppo non sono riuscito a visitare.
Cabras comunque merita una visita, almeno per gustare la ottima bottariga di muggine che vi viene prodotta!
Buon viaggio a tutti e arrivederci alla prossima gita.

Alessandro Giovanni Paolo Rugolo
Archeologia, preistoria e storia, suddivisioni artificiose del tempo... l'unico testimone dell'evoluzione dell'Uomo...
Egitto... Roma... Sardegna...
Etruschi... Babilonesi... Assiri... Hyksos... Shardana... popoli del mare... Maya... Aztechi... Cinesi...
Vogliamo parlare di questi popoli e di altri... cercare di evidenziare similitudini e differenze... proveremo a studiare, assieme a chi ne ha voglia, popoli dimenticati... senza preconcetti!
Cercheremo di ripercorrere la storia di questi popoli con l'aiuto di storici antichi e moderni... ma non solo...
Cercheremo di andare oltre una disciplina scolastica leggendo testi antichi alla ricerca di radici ancora poco chiare...
Cercheremo di capire se è vero che l'uomo si è evoluto così come abbiamo studiato, linearmente, oppure se è possibile che le cose siano andate diversamente... come sostenne Platone!

Zibaldone...

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